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martedì 22 novembre 2011

Il Proprio e l'Estraneo

Giovedì, 03 Marzo 2011
Vita strana, quella del traduttore. Lavoro strano quello che sono andato a scegliermi (o che mi ha scelto).



Al momento vivacchio di ripetizioni e aspetto con trepida attesa il pagamento della mia prima traduzione tecnica per un'azienda del luogo. Credo che capisci che è il tuo lavoro quando, una volta scritta l'ultima parola, pensi: "Ancora. Ne voglio ancora..."



Ma non è quello che cerco io. Il grande sogno è la traduzione letteraria dall'inglese. E il compito di un traduttore (e chiedo scusa al signor Venuti se non sono d'accordo con lui e i suoi saggi sull'argomento) è di essere invisibile. Noi lottiamo col testo fonte, lo domiamo nonostante opponga una strenua resistenza, dentro di noi lo facciamo nostro... per poi sparire. Lo riscriviamo da zero, con fatica e sudore... ma della nostra personalità non deve trasparire nulla.



Ti rende umile. Ti fa crescere. Ti fa amare ancora di più l'autore. La traduzione E' un atto di amore. Un amore così grande che ti convince a deporre ogni tuo orgoglio, ogni spasmo di amor proprio, tutto per poter trasmettere a chi non ha la fortuna di saper leggere il testo in lingua quel tesoro che hai trovato.



E la traduzione è qualcosa di ancora più stupendo di questo, qualcosa che mi ha aiutato anche nella vita. La traduzione, soprattutto quella di culture lontane, significa accettare quello che è ESTRANEO del testo fonte, senza tentare di renderlo PROPRIO, nostro, italiota. Solo quando avremo capito che tra il mondo del testo fonte e il nostro c'è un abisso incolmabile, allora potremo superare questo senso di malinconia e frustrazione e accettare l'Estraneo in quanto tale.



Oh Cubo. Quanto ho imparato dalla traduzione. Quanto ho imparato dalle lezioni della Franja. Moltissimo è dipeso da questo. E se ora siamo entrambi felici, lo dobbiamo a questo mio passo avanti.
NoveDiQuadri

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